Il borgo rurale di marchigiani doc Castelverde idea di Paolo VI

C’ è gente che conosce a menadito la raggiera delle strade consolari; gente che sa elencare a memoria e nell’ ordine giusto tutti i quartieri dell’ Aurelia o della Tuscolana, gente che ha trascorso un’ intera vita a Roma – e che tuttavia di Castelverde ignora, non dico la posizione, ma perfino il nome. Per raggiungerlo, chi sceglie la Prenestina deve andare a frugare giù in fondo a quella pista da bob della Collatina, oppure deviare sullo strano gomito da cui si dirama la Polense. A chi preferisce la Tiburtina tocca perdersi tra i prati e i casali meravigliosi di via della Tenuta del Cavaliere, e alla fine divincolarsi sotto l’ arco del castello di Lunghezza come tra le gambe di un buttafuori. Anche chi ha fretta e imbocca l’ autostrada Roma-L’ Aquila, uscendo a Lunghezza ha ancora davanti una bella corsa tra i maneggi appena a nord di Corcolle. Insomma, Castelverde è un quartiere dove è difficile capitare di passaggio. Bisogna andare a cercarlo, e anche se fa parte del comune di Roma (a questo i castelverdini giustamente ci tengono) conserva sempre qualcosa di gradevolmente rurale. Nel “Tuttocittà” delle Pagine Gialle ci è entrato solo da qualche anno; e a volte, arrivandoci di sera, all’ ultima curva ho visto sgusciarmi di sotto i pneumatici una volpe. Dovevano essercene molte di più, di volpi, quando qui c’ erano solo due marane, il Fosso della Lunghezzina e il Fosso dell’ Osa, che dalle rovine dell’ antica Gabii (lungo la Prenestina) andavano a versarsi nell’ Aniene vicino al castello di Lunghezza. Il castello è una presenza imponente, remota, sul conto della quale si potrebbero raccontare tante storie. Ma non ci si deve fare distrarre, Lunghezza è una cosa, Castelverde un’ altra: ha una storia più fresca e agitata, altri materiali, un altro sapore, e prende nome da un altro castello. Oggi che la popolazione diventa sempre più mista, si comincia a dimenticare che Castelverde era in origine una vera e propria colonia delle Marche (anzi, di alcuni piccoli centri marchigiani) a Roma. Nel secondo dopoguerra l’ inurbamento dei marchigiani funzionava un po’ come oggi l’ immigrazione peruviana o cinese: si spostavano prima coloro che sono in grado di lavorare; poi arrivano le mogli (o i mariti) e i figli; poi, con un rapido tam-tam, fratelli, sorelle, cugini – e, spesso ultimi, i genitori. Allora come oggi, per tenere buona la nostalgia si cucinavano i piatti della propria terra, il fricò o i maltagliati, di domenica i vincisgrassi e la faraona. E per sfamare le famiglie (in questa Roma che non è mai stata troppo morbida con i marchigiani) si lavorava moltissimo, in primo luogo nei cantieri. Erano gli anni del grande espansionismo edilizio. Molti operai dedicavano i fine settimana a costruirsi la casa: buona parte di Castelverde è sorta così, tirata su dai suoi abitanti, in condizioni di abusivismo quasi obbligato. La maggiore responsabilità è di chi ha preferito ignorare che il boom economico produceva, oltre che nuovi redditi e beni, nuovi bisogni. Comunque oggi i condoni hanno grosso modo legittimato la situazione di quella che risultava essere, nel 1978, la più grande area residenziale abusiva del Comune di Roma (ben 279 ettari). La vastità può essere interpretata in senso positivo. L’ edilizia castelverdina è semplice e di scarsa elevazione: non ci sono “formicai”. Le case si dispongono lungo una strada centrale, via Massa San Giuliano, che coincide con il crinale tra le due marane. Oltre il fosso dell’ Osa, che è un vero e proprio burrone, spicca lo skyline di Villaggio Prenestino, perfettamente simmetrico a quello di Castelverde: niente di più facile che immaginare una storia d’ amore tra un Romeo villagese e una Giulietta castelverdina. Dietro il fosso della Lunghezzina spunta Corcolle, nome dolcemente liquido, e si vedono i nuovi mercati generali e i binari dei Tav. Alta sullo sfondo c’ è Tivoli, che sembra davvero una fetta di torta mimosa appoggiata sul davanzale di una finestra durante una festa di nozze. Le traverse della via principale, per un’ ironia della sorte, hanno nomi tolti ai centri minori… degli Abruzzi, con qualche puntata addirittura in Molise. (Oltre Villaggio, si finisce in quello che chiamerei “il quartiere degli uomini di pace”, da Schweitzer a Aldo Capitani all’ arcivescovo Romero; mentre attraversando la Prenestina ci si ritrova in piena Sardegna). L’ unica eccezione a questa legge dei nomi sta in pieno centro (cioè accanto allo slargo che ospita il bar Lorenzetti, il giornalaio, il supermercato e altri negozi). è via Santa Maria di Loreto, che prende nome – un nome marchigiano! – dalla chiesa parrocchiale in cui sono stati battezzati, non solo parecchi castelverdini, ma anche il quartiere stesso. In origine, infatti, una fortezza in rovina detta “Castellaccio” aveva dato il suo nome alla zona. Si racconta che fu Paolo VI in visita qui nel 1967 a esclamare: «Si dovrebbe chiamarla Castelverde e non Castellaccio!». Detto fatto, i parrocchiani si attivarono perché il nome venisse mutato. è una bella storia, che contiene elementi profondi: l’ ospite potente che porta in dono un’ idea; i cittadini che spontaneamente lavorano per realizzarla; il guadagnarsi un nome dignitoso, il riconoscersi attraverso un nome. è anche una storia verosimile, considerata la personalità di papa Montini – un pontefice colto, attento al linguaggio. Infine è una storia che colpisce e provoca, perché si colloca in un quartiere che è stato tra i più «rossi» di Roma. Ma tutta la storia di Castelverde, per quanto breve, ha questa qualità combattiva e vagamente mitologica. Sembra che ogni macigno della storia d’ Italia abbia lasciato una scaglia in questa comunità minima. L’ Italia rurale, con la cooperativa contadina dei primissimi castelverdini (quando Villaggio si chiamava ancora semplicemente «l’ Ovile»); e poi l’ Italia industriale e tecnologica, con la nascita di aziende ormai in piena crescita come la Bricofer. L’ Italia delle lotte per la giustizia sociale, con blocchi stradali per ottenere una scuola; ma anche l’ Italia del disagio sociale, con blocchi stradali per far spostare uno dei primi campi nomadi. Perfino l’ Italia del terrorismo (un covo Br fu scoperto nell’ 88 proprio qui). E poi, come ho detto, l’ Italia cattolica, con un convento e addirittura una suora in odore di santità (suor Dolores Barone, mancata di recente); l’ Italia comunista, con una sezione del Pci attivissima; e anche la bella Italia che tiene in salotto (l’ ho visto con i miei occhi) il busto di Lenin accanto al crocifisso. Per non parlare dell’ Italia delle nuove fedi, come i Testimoni di Geova che hanno qui una comunità ampia e radicata. (E tollerante: da diversi anni un gruppo di Testimoni castelverdini invita regolarmente me e il mio compagno, che è loro parente, a feste e matrimoni. Con un tacito rispetto che spesso non si trova tra i cattolici). Insomma, a mettersi a raccontare le storie, non si finirebbe più. Eppure sono solo pochi chilometri di palazzine, negozi, orti, e subito dietro la campagna. Quanta vita, a fermarsi in questo corridoio di case tranquille, che in macchina in tre minuti l’ hai traversato.

TOMMASO GIARTOSIO

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